3.1 - Via
Provinciale
Quando
è stata tracciata la strada che attraversa il centro abitato di Aci Trezza,
oggi denominata Via Provinciale, e fino agli anni ’40 unica via litoranea?
La Via
Provinciale, dispiegata da Nord (nei pressi della Casa Cantoniera ANAS) a Sud
(nei pressi dello stabilimento balneare “Lido dei Ciclopi”) è lunga 1,2 Km
circa; si percorre in 15 minuti a piedi ed in 3 minuti in auto (in circostanze
di traffico medio). E’ possibile percorrerla interamente in auto da Acireale
verso Catania, ma non viceversa: il senso opposto è ammesso solo (da Catania
verso Messina) dal Lido dei Ciclopi alla Piazza delle Scuole, e poi da Via
Calabretta fino alla Casa Cantoniera.
Ma non è
stato sempre così. Fino agli anni ’50 (a causa dei lavori di realizzazione
della c.d. “strada nuova”, la SS 114, altrimenti denominata “Nazionale”, oggi
Via Livorno) era previsto, anche in assenza della moltitudine di posti auto
laterali e del traffico intenso, il doppio senso di marcia. Nel 1932 la Via
Provinciale era attraversata solo in una parte dai binari del tram, poi
chiaramente tolti per far spazio al traffico automobilistico. Nella pellicola di
Visconti "La Terra Trema – Episodio
del Mare" (del 1948) ancora si osserva l'assenza dell'asfalto sul
tracciato, affiancato invece già dal basolato della piazza e dei marciapiedi.
Diverse sono
le teorie secondo cui il tracciato di Via Provinciale debba farsi risalire ad
età antica; quasi certamente il disegno odierno è da attribuire ai Principi
Riggio di Campofiorito, ed il successivo lastricamento ai “piemontesi”, secondo
le testimonianze tramandateci da Don Salvatore De Maria nei suoi appunti.
Ebbene non si
esclude l’ipotesi che la Via Provinciale ricalchi la Via Consolare Pompeia[1]
(confusa spesso con la Via Consolare Valeria, che invece corre da Messina a
Marsala), fatta edificare da Gneo Pompeo[2]
nel 72 a.C. in concomitanza di una spedizione in Sicilia volta a caccia Marco
Perperna (generale romano, pretore in Sicilia, partigiano di Mario).
Secondo le
fonti, a parte la
fugace citazione di Cicerone,[3]
non si hanno testimonianze precise; Paolo Orsi nel 1907 così ci mette in
guardia: “chi ponesse mano allo studio
della viabilità della Sicilia antica, da nessuno mai tentato, arriverebbe alla
singolare conclusione che tutte le vecchie trazzere non erano in ultima analisi
che le pessime e grandi strade dell’antichità greca e romana, e talune forse
rimandano ancora più addietro”.[4]
I Romani, non
potendo far uso di gallerie, avrebbero dovuto par passare la Via Pompeia nei
tratti costieri più pianeggianti, per congiungere nel modo più scorrevole le
più importanti metropoli del litorale ionico.
Così ne parla
l’Archeologa Giuseppina Sirena nel suo saggio “La Viabilità costiera della
Sicilia orientale in età romana: la cosidetta Via Pompeia”: «Superato
il territorio comunale di Giarre, è ipotizzabile che la strada scendesse
attraverso il bosco di Aci seguendo il tracciato dell’attuale SS 114 fino alla
frazione di S. Cosmo; da qui, a causa della presenza di un’alta balza, piegava
verso oriente verso la contrada Cervo e quindi all’interno dell’attuale centro
urbano di Acireale, dove seguiva il tracciato di via Currò fino alla piazza del
Duomo e quindi usciva attraverso via Dafnica e il piano di S. Giovanni.[5] Il
rinvenimento presso via dell’Asilo ad Aciplatani di strutture murarie
riferibili ad età romana[6]
permette di ipotizzare che la strada scendesse fin qui quasi rettilinea e
proseguisse fino al sito di S. Venera al Pozzo, dove, grazie ai recenti
rinvenimenti e agli scavi ancora in corso, è stato possibile localizzare la mansio di Acium.[7]
La discesa verso il tempietto identificato a Capo Mulini[8] e
attribuito immediatamente ad età romana avveniva probabilmente tramite un
diverticolo dalla strada principale, come recentemente ipotizzato da E.
Tortorici.[9]
La strada, lasciata la mansio,
procedeva verso sud, dove, in contrada Reitana, rinvenimenti sporadici nei
primi anni del Novecento e scavi recenti[10]
hanno evidenziato una occupazione in età romana imperiale, con una fornace,
alcuni non meglio specificati resti di tracciato viario e una necropoli.[11] Proseguendo
lungo la medesima direttrice della viabilità moderna, già nel 1924, G. Libertini
identificò ed ebbe modo di scavare, in contrada Casalotto,[12]
un edificio al quale attribuì una funzione di magazzino, probabilmente connesso
con una villa rustica di età romana imperiale.[13]
Da qui, il tracciato deviava leggermente verso ovest, attraverso Crocefisso –
Nizzeti,[14]
Ficarazzi, Furnari, Badalà, Cezza e Monte S. Paolillo,[15]
fino a Catania.»[16]
La Sirena,
individua la Via Pompeia in un percorso che oggi passa per il complesso
“Reitana-Santa Venera al Pozzo”, piuttosto che sulla litoranea S.S. 114, ed ad
Acitrezza, sulla Via Provinciale, addirittura coinvolgendo – nella sua
riflessione - Nizzeti, Ficarazzi e Baladà, altre frazioni del Comune di Aci
Castello.
La
considerazione che per prima salta all’occhio – per alimentare la nostra tesi -
è quella legata alla presenza di una fortificazione di altissima risalenza che
è quella della Rocca Saturnia (oggi Maniero Normano di Aci Castello), alla
presenza di abitato umano sull’Isola Lachea, alla necessità di congiungimento
tra Capo Mulini (con certezza sede di urbanizzazione greco-romana) e Katane, per
cui dovesse essere piuttosto non giù un "diverticolo", ma la vera e
propria Pompeia (dovendo essere "diverticolo" il congiungimento con
il complesso di Reitana-Santa Venera al Pozzo").
Ad oggi possiamo
affermare con certezza, che la Via Provinciale (ex Via Consolare Pompeia o sua
vitale ramificazione) è stata percorsa da soldati romani e bizantini, da
invasori saraceni ed arabi e cavalieri normanni, da milizie spagnole e camicie
rosse, da principi e pescatori, da truppe tedesche ed anglo-americane, nonché
dagli stessi trezzoti, soltanto da due millenni.
1.2
– I Lavatoi
I Lavatoi dei quali parla Giovanni Verga nel romanzo verista
"I Malavoglia" erano collocati presso quella che allora veniva
chiamata “a chiazza o Jongiu” (la piazza del giungo)[17],
una spiaggia che erbosa si estendeva da lì fino all’imbocco di Via Magrì, non
distante dall'attuale collocazione ed in prossimità dei basalti colonnari. Poi
in epoca fascista vennero spostati al di sotto dell'attuale Piazza Visconti (ad
Aci Trezza) già Piazza XXVIII Ottobre e poi Piazza Roma, ad angolo tra Via
Provinciale e Via Fontana Vecchia, in pieno centro storico, in quella che oggi
sul Lungomare dei Ciclopi è chiamata Piazza dei Lavatoi.
Verga cita
quei Lavatoi nella sua più importante opera ben ventitré
volte, più di quanto possa aver citato la fontana (7 volte) i basalti (7 volte)
o i Faraglioni (5 volte). Ragion per cui possiamo capire l’importanza e la
centralità di questo sito nella seconda metà del XIX secolo per la popolazione
di Acitrezza. Lo scrittore verista parla dei Lavatori di Trezza come del luogo
presso il quale era ammarata la “Provvidenza”, presso il quale le donne si
riunivano per fare il bucato per conto proprio o per conto altrui, conversando
o cantando, o semplicemente per incontrarsi.
Dalla
descrizione del Verga si comprende come la Provvidenza stava ammarata tra i Lavatoi ed il mare, in quella parte di costa oggi
fortunatamente valorizzata e denominata "Scalo dei Malavoglia",
caratterizzata da una rarissima conformazione geologica di origine vulcanica
(sei siti in tutto il mondo) qualificata come basalti colonnari o pillows lave.
Poiché sono
troppo giovane per aver visto e toccato i Lavatoi, ho avuto il piacere di
documentarmi su questi rivolgendomi direttamente ai protagonisti viventi dei
Lavatoi, a coloro i quali hanno avuto l'opportunità di vederli, di viverli e di
toccarli: mi sono rivolto ai più saggi del paese.
Questi mi
hanno raccontato che nel silenzio del paese degli anni '50 e del mare si
sentiva gorgogliare l’acqua in quelle undici vasche disposte tutte intorno (tre
frontali e quattro per ciascun lato) per poi defluire lentamente attraverso un
canaletto sino al mare, e non poteva passare inosservato agli scolaretti che
passavano di lì per recarsi a scuola la mattina. Si trattava di un luogo molto
frequentato dalle donne del paese che facevano a gara per accaparrarsi un posto
per lavare la biancheria, lasciare i panni nelle vasche col sapone, per poi
sbatterli sulla pietra lavica ed infine stenderli al sole vicino al mare in
prossimità dei basalti colonnari, oppure portandoli a casa. Da quelle pile
passava ogni vicenda di Acitrezza: si commentava, si alludeva, si manifestavano
amori e preferenze.
Ho letto di
una donna che, dovendosi recare alla festa di Sant'Alfio, non potè privarsi
dall'andare ad annunciare il suo viaggio alle amiche ai lavatoi, senza che le
sembrasse davvero festa. Mi hanno raccontato che fino a pochi anni prima della
demolizione (avvenuta intorno al 1976) nel '73 ancora tre donne anziane si
recavano ai lavatoi, tappando le cannule di collegamento delle vasche con un cilindro
di legno, per far riempire le prime a loro utili per il candeggio. Alcune
persone a cui ho domandato e che sono questa sera presenti mi hanno raccontato
che ci si giocava a carte di nascosto dai genitori e la vasca di sinistra
d’estate diventava una minipiscina; altri mi hanno detto che da piccoli
venivano mandati dai nonni a riempire i bidoncini d’acqua, o ci andavano
semplicemente per ammirare le fontanelle e giocarci, oppure che i monelli
venivano cacciati a male parole dalle anziane signore che facevano il bucato.
Fino agli anni ’60 venivano utilizzati da chi ancora a Trezza non disponeva a
casa di acqua corrente.
Quasi
certamente si trattava in origine dei Lavatoi annessi al Palazzo reale del
Principe Riggio, allo stesso modo di come fu realizzato ad Aci Catena, ed erano
alimentati da una vena di acqua corrente che a tutt’oggi scorre sotto Via Feudo
e rende verde il prato vicino al cantiere navale Rodolico, presso i basalti
colonnari che il Verga chiamava “greto”. Il Principe di Campofiorito li aveva
realizzati per permettere al personale del palazzo di garantire il lavaggio del
bucato, ma anche permettere ai cittadini di Trezza la possibilità di godere di
acqua corrente in pieno centro abitato. Lavatoi che oggi lasciano solo una
fontana attiva, e che per molti decenni nel nostro lontano passato avevano dato
anche lavoro a molte donne come lavandaie. Sotto l'attuale piazza Visconti
erano fatti di cemento bianco e marrone tipico delle pile, e di basalto: pietra
vulcanica.
Una signora
alla quale ho esposto il progetto di ricostruzione mi ha risposto: "Ma
figliolo, al giorno d'oggi a Trezza tutti hanno una lavatrice: nessuno più ci
andrebbe a fare il bucato." Comprendendo il malinteso, ho subito chiarito
che la ricostruzione sarebbe simbolica ed a fini artistico-culturali.
Il ripristino
anche simbolico dei Lavatoi dei Malavoglia con annesso una mediateca
storico-culturale, non solo testimonianza dal passato feudale di Acitrezza
(perché quella pietra lavica degli "stricaturi"
era stata collocata dal Principe Riggio di Campofiorito), non solo in qualità
di monumento al verismo italiano (per la assidua citazione da parte del Verga),
ma anche componente della storia e della cultura del nostro paese e della
nostra tradizione, sarebbe una indiscussa attrazione turistica per il nostro
paese e volano di sviluppo economico per la nostra cittadinanza, oltre che
motivo di orgoglio per la tutela e la valorizzazione della nostra storia e
della nostra identità.
1.3
– La Fattoria dell’Antico Feudo
Dall’indagine
storica e dall’analisi del territorio delle Aci, emerge con forza una cultura
ed una tradizione legate al lavoro della terra, anche in prossimità delle
località marinare, le cui testimonianze tangibili rischiano – col correre dei
tempi - di andare perdute. La presenza di una tradizione agricola nella zona è
ben rappresentata dalla costellazione di fattorie e dei mulini nelle terre di
Aci e nello sforzo della gestione delle acque fluviali (che per oltre
settecento anni giunge sino a noi), al fine di irrorare le colture presenti.
Saro Bella,
nella sua trattazione “Acque, ruote e mulini nella Terra di Aci”[18]
ben ci fa comprendere come l’attività produttiva principale nel corso dei
secoli in questi luoghi sia mutata – sulla base delle diverse contingenze
storiche, e delle necessità dei governanti – passando dalla gestione di
maceratoi (per la coltura di lino e canapa), alla coltivazione di vitigni,
agrumeti e uliveti, per finire (e questo lo abbiamo visto dalla storia recente)
alla pesca ed oggi per lo più al turismo.
E’ proprio la
fase storica legata alla coltura dei campi che risalta all’occhio del nostro
interesse, e che ci racconta una parabola agricola confermata non solo dalla
penna di diversi autori, ma anche dalla presenza concreta di prove, di evidenze
storiche, di testimonianze culturali come – ad Aci Trezza – della fattoria dell’antico Feudo di Via Dietro
Chiesa.
Quando oggi si
parla della località marinara di Aci Trezza, non si può che associare il nome
di questo ridente paese all’immagine (del XX secolo) idealizzata della pesca,
della cultura marinara e della tradizione barcaiola.
Ma il motivo per
cui Aci Trezza ha sviluppato una attitudine al mare è ben noto che lo si deve
all’allestimento degli attracchi portuali che furono realizzati da Don Stefano
Riggio Saladino nel 1687 contestualmente alla realizzazione della prima Chiesa
del paese dedicata a San Giuseppe (distrutta da un terremoto l’11 Gennaio
1693).
Il motivo per
cui il Capitano di Palermo, Principe di Campofranco e Campofiorito, volle
realizzare il molo, il “Carricatore” (allo stesso modo di Catania, Riposto e
Messina), fu quello di poter commerciare i prodotti dei suoi possedimenti
terrieri per mare, con Malta, Spagna ed altri, senza dover tributare dazio a
qualsivoglia dogana, potendo beneficiare di un porto proprio.
Il molo di Trezza, a partire dal XVIII sec., venne
utilizzato per commerciare in canapa e lino, poi, nel XIX sec., con il declino
del vecchio sistema economico e produttivo, con l’unione dei Comuni di Castello
e Trezza, e l’Unità d’Italia in olive, agrumi e lupini, e solo nel XX sec.,
contestualmente alla scomparsa dal Palazzo dei Riggio ad Aci Trezza, ed il radicamento di una tradizione peschereccia,
ereditato interamente dai pescatori della località.
Acitrezza è
largamente attraversata da torrenti e corsi d’acqua, e come si sa dove c’è
acqua corrente, c’è maggior facilità a costituire una attività lavorativa, una
urbanizzazione, un lavoro che fa uso fluviale. Sul finire dell’800 la gestione
delle acque nelle Terre di Aci si trovava nelle mani di Domenico Bonaccorsi
Marchese di Casalotto, il quale ne aveva venduto grossa parte a Catania,
lasciando letteralmente i possidenti e gli agricoltori locali a bocca asciutta,
venendo meno in verità ad un accordo che gliene riconosceva una parte almeno
sufficiente. E tanto quelle acque residue che giungevano a Capomulini, quanto
quelle che giungevano ad Aci Trezza, giovavano
per l’irrigazione dei campi coltivati dai contadini locali, quando non
arrivavano ai maceratoi.
Lo descrive così
Saro Bella: “Infatti, se da una parte con
l’accordo i possidenti erano riusciti ad ottenere un incremento dei tempi nei
quali utilizzare l’acqua a svantaggio delle quote comunali, dall’altra ambedue
i contendenti erano stati danneggiati dalle appropriazioni perpetrate dal
Casalotto che avevano pesante-mente diminuito la quantità d’acqua globale a
loro disposizione.
[…] Le lamentele dei comuni vicini, in particolar
modo nei comuni di Aci Castello nel quale era confluita la borgata di Trezza,
riprendevano ciclicamente in diretta rispondenza con la quantità di acque che
affluiva nei maceratori. […] Le quantità
d’acqua […] venivano ulteriormente e
costantemente ridotte dall’indebita appropriazione che, lungo tutto il
percorso, particolarmente nelle ore notturne, ne facevano i contadini, per
irrigare i preziosi agrumeti.”[19]
Nel 1901 vennero
chiusi autoritativamente i maceratori presenti sul territorio, e il Bella così
continua nella sua trattazione “deviata
l’acqua, per la zona, le sue sorgenti, le saie, i canali fu la fine. Perse
rapidamente importanza divenendo presto una
periferia agricola dove incontrastati imperavano gli agrumi. Furono proprio gli
agrumi ed i loro redditi che la mantennero intatta sino agli anni cinquanta del
nostro secolo, …”[20]
riferendosi alla zona.
Aci Trezza, con
la sua presenza contadina, beneficiò dell’afflusso d’acqua, ne fece tesoro con
la coltivazione del terreno di un Feudo posto proprio sulle pendici della
collina che sormonta il centro, nonché alimentare più d’una pubblica fontana.
Posto in Via
Dietro Chiesa ad Aci Trezza, sulla parte sommitale della scalinata denominata
“Via Feudo” si trova l’ultima traccia del passato agricolo della località in
questione.
E posto lì non a caso: costeggiato a sud-ovest da un
torrente, detto di “Santa Lucia” o “Feudo” (lo stesso che ancora oggi scorre
sotto Via Feudo, e che rende verde il prato in riva al mare presso i Basalti
Colonnari, e che fino al 1976 alimentava i Lavatoi pubblici posti sull’attuale
piazza dei lavatoi, accanto Via Fontana Vecchia) a monte di quel corso d’acqua
trezzoto che irrorava i campi del Feudo.
Quello che oggi
è un edifico rurale posto nel centro storico, già duecento (o anche più) anni
fa doveva essere la porta del paese verso il mondo contadino, collocato al
limite Ovest del centro urbano e ad incominciamento dei terreni coltivati ad
agrumi, ulivi, viti, ma non solo: il Feudo di Aci Trezza si connotava così come
la tipica fattoria del luogo, caratterizzata dalla presenza di animali da allevamento,
da soma, pollame, e così via. Ci è data prova pure della presenza di un
frantoio, a conferma della specializzazione del lavoro che vi veniva svolto,
radicato nei decenni (e nei secoli) e giunto sino a noi (direttamente dalla
dominazione spagnola e feudale del territorio).
Una notevole ed
importantissima nonché rappresentativa testimonianza dell’attività contadina
nel Feudo ci è data da Mons. Alfio Coco da Ficarazzi[21],
nel suo libro dedicato alla sua attività pastorale nella Parrocchia di San
Giovanni Battista ad Acitrezza nello scorso secolo. Innanzitutto ci dice che la Via Feudo (in passato una salita
carrabile, oggi una scalinata), era
l’accesso alla fattoria del Feudo, che univa così il paese alla campagna
limitrofa.
Egli, con non
poca nostalgia ed affetto, ricorda così la famiglia che vi lavorava ed il
lavoro condotto: “Giuseppe Torrisi (o il
fattore del Feudo). Lo penso in quella casa di Via Dietro Chiesa, di fronte
alla Via Feudo, costeggiata dal torrente, affacciato insieme alla moglie, Maria
Basile, da quel terrazzo rialzato su cui si stendeva un bel pergolato e sul
davanti tanti vasi di fiori e di basilico. Questa
casa una volta era l’antica fattoria del feudo dal quale rimase tagliata, in
seguito all’apertura di Via Nazionale, oggi Via Livorno. Una bella casa formata
dal terrazzo di accesso, da due ampie stanze, con a fianco il cortile con il
cancello d’ingresso e sul retro l’antico frantoio, la stalla, il pollaio, e il
giardinetto di limoni. Il proprietario, padre di numerosa famiglia, era conosciuto
col nome di “don Peppino du feu” cioè il signor Giuseppe Torrisi del Feudo. Era
originario di Aci Sant’Antonio, uomo buono ma rigido e dall’aspetto severo. In quella casa si respirava l’aria
dell’antica fattoria, la poesia della campagna. Entrando si vedevano le mucche,
il vitellino, i cavalli, i polli. La gente andava là sicura di essere ben
servita e si forniva di latte, uova, polli.”[22]
Ad Aci Trezza il
Feudo è il segnale di una realtà più ampia e diffusa, oggi annebbiata: quella
di una cultura agricola nel cuore del paese della pesca nella Riviera dei
Ciclopi. Le due culture, orbene, quella marittima e quella agricola, hanno
convissuto per lungo tempo, fin dalle origini della Trezza (fissate da
Enrico Blanco nel suo scritto “Trizza le Origini” nel XVII Sec. col Principe
Riggio).
Un capolavoro
del verismo italiano, venuto fuori dalla penna di quel Giovanni Verga che
soggiornò ad Aci Trezza per il suo romanzo dei vinti, testimonia la presenza di
una cultura contadina proprio fra quelle pagine in cui parla delle disavventure
della famiglia Toscano, del mare e della pesca: si tratta di un riferimento al
“ripiego” lavorativo dei Malavoglia, a fronte dello scarso rendimento della
pesca. Così il Verga scrive: “Andava a finire che Piedipapera stavolta voleva essere pagato, santo
diavolone! San Giovanni era arrivato, e i Malavoglia tornavano a parlare di
dare degli acconti, perché non avevano tutti i denari, e speravano di raggranellare la somma alla raccolta delle ulive.
Lui se l’era levati di bocca quei soldi, e non aveva pane da mangiare, com’è
vero Dio! non poteva campare di vento sino alla raccolta delle ulive”[23].
E
l’agricoltura non era solo attività commerciale, ma anche bene di proprietà,
patrimonio e ricchezza, inteso come fondo, come Feudo: “Quello della pancia grossa era Brasi, il figlio di padron Cipolla, il
quale era il cucco delle mamme e delle ragazze, perché possedeva vigne ed oliveti.”[24]
E vigne ed oliveti sono stati ben
presenti (e tutt’ora lo sono) ad Aci Trezza: dalla “Vigna Abate” all’ingresso
Sud del paese (eliminata negli anni ’40 per far posto all’Edificio delle Scuole
Elementari), ai numerosissimi ulivi della collina trezzota (ancora oggi
presenti tra Via Manzella, Via Litteri e Via Vampolieri).
Non solo Verga ci parla di una
presenza contadina duecento anni fa ad Aci Trezza, ma anche e soprattutto – in
forma sicuramente più prosaica – Don Salvatore Coco di Ficarazzi[25]
(nipote dell’Arciprete già citato), che nel suo libro “Ultimo banchetto a
Trezza” offre un mirabile spaccato di vita della comunità religiosa trezzota
attorno alle due devozioni mariane ivi da sempre presenti. Così il sacerdote
scrive: “Un’ altra edicola della Madonna,
quasi nascosta, si trova in Via Dietro Chiesa. E’ dedicata a S. Maria della
Provvidenza, per il passato che era detta dei Tropea o Tropeati.
L’Arciprete De Maria[26]
in uno dei tanti suoi foglietti pervenuteci si chiede quale devozione mariana
sia la più antica a Trezza. Egli non riesce a dare una vera e propria risposta,
ma fa capire che sicuramente le due devozioni più antiche risultano certamente
quella di S. Maria La Nova e di Santa Maria della Provvidenza. Intorno al 1760 due fratelli Lorenzo ed
Antonio Tropea, eremiti appartenenti all’Eremo di Sant’Anna, fabbricarono questa cappella con
altare accanto all’abitazione di Michele Pellegrino a ridosso della stalla. L’immagine della Madonna della
Provvidenza, con un cero sempre acceso, era il segno dell’attenzione che
rivolgevano i fedeli e quelli della famiglia Pellegrino che avevano
l’opportunità di accedere direttamente dalla loro abitazione. Lo spazio
Figura 6:
Cappella di S. Maria della Provvidenza - Vista da Via Dietro Chiesa
|
Ciò ancora a testimonianza della
risalenza della cultura e della tradizione agricola, della presenza di
agricoltori e coltivatori nella collina, dai terreni soffici e fertili, della
Trezza.
Sempre Salvatore Coco ci dice che la
Cappella della Provvidenza è dotata da una campana sulla sua sommità, volta
chiaramente al richiamo di fedeli e di lavoratori dai campi del contiguo Feudo,
per la preghiera e per scandire i momenti del giorno e del lavoro. Si ricordi
che la Cappella di S. Maria La Nova invece non è dotata di campana (posto - per
ipotesi - che si volesse richiamare con essa dal mare – con notevole sforzo – i
pescatori).
Per tornare al Verga, lo scrittore
siciliano indica la Cappella di Via Dietro Chiesa come quella posta
all’ingresso del paese provenendo da Aci Castello: un chiaro segnale del
“confine urbano” della Trezza; poi chiama la barca dei Malavoglia “La Provvidenza” richiamando così il
culto agricolo mariano presente nella località; ed, infine, riempie “La
Provvidenza” non già di prodotti del mare, nella nota vicenda della tempesta,
ma di lupini, quel prezioso legume
che cresce nei campi delle terre di Aci.
E’ da ritenere pertanto che la fattoria dell’antico Feudo coronasse – in una cornice alternativa
rispetto a quella peschereccia -, con le sue viti, i suoi ulivi, i suoi limoni,
con gli ortaggi e le verdure, le zappe, l’aratro e le saie, con i buoi ed i
vitelli, i cavalli e gli asini, con i conigli ed il pollame, con in latte
appena munto e le uova sottratte alla cova, questo giardino in luogo di viva espressione della cultura e della
tradizione agricola di questo luogo.
Se la
tradizione barcaiola e marinara di Aci Trezza, con il culto a S. Maria La Nova
è rappresentato dalla marineria trezzota con le sue barche in legno (che il 22
Maggio 2014 è entrata nel Registro delle Eredità Immateriali della Regione
Siciliana), allora la tradizione campagnola ed agricola di Aci Trezza, con il
culto a S. Maria della Provvidenza è rappresentato dall’antico Feudo di Via Dietro Chiesa.
Oggi la
fattoria di Acitrezza soffre i gravami del tempo, delle intemperie e
dell’incuria: il simbolo della cultura contadina nella località rischia il
decadimento e la rovina. La
testimonianza della tradizione agricola nella Trezza esiste e resiste – purtroppo
malamente - nel Feudo: è auspicabile
un progetto di ripristino e valorizzazione che faccia adesso giustizia per
l’importanza storica della costruzione, e che sensibilizzi chi di competenza
all’educazione culturale dei nostri luoghi e del nostro passato.
L’impegno
delle istituzioni deve essere orientato sulla cura, la restaurazione e la
manutenzione della fattoria dell’antico Feudo di Aci Trezza in
quanto è testimonianza concreta e tangibile di una ben definita epoca (quella a
cavallo tra il XIX ed il XX secolo) produttiva, e di una importante pagina di
storia dello sviluppo e della cultura della località.
1.4 – I Bastioni di Acitrezza
La Trezza, nel suo vergine fascino
paesaggistico del XVI secolo, doveva apparire agli occhi del vicereame
spagnolo, come facile preda degli invasori del mare, a danno della vicinissima
Jaci o Jachi, tanto da dover provvedere con l’istallazione permanente di torri
difensive collocate sulla costa, accanto al maniero normanno della rocca
Saturnia. Il programma difensivo interessò anche altre limitrofe località. La
minaccia del noto pirata Luccialì[28]
indusse il governo territoriale del Regno di Spagna, rivolgendosi ad architetti
e strateghi, a costruire la Torre Alessandrano, le Mura fortificate del porto e
la Torre Sant’Anna a Capomulini (1585), La Garitta di Santa Tecla e la Fortezza
del Tocco sulla Timpa di Santa Maria La Scala (1592), e i due Bastioni di Aci Trezza;
il 6° volume dei Manati dei Giurati mostra anche in zona altre due costruzioni:
Rinella e Stazoni.[29]
Ci racconta lo storico Saro Bella,
in un periodico locale, che nel 1578 un illustre ingegnere militare, Tiburzio
Spannocchi[30],
aggirandosi tra scogli, isole e faraglioni a bordo di una barchetta, venne
attirato più dalla pericolosità dei luoghi che dagli incantevoli paesaggi e
pertanto non mancò di raccomandare al Vicerè che gli aveva commissionato la
faccenda la costruzione di una torre
difensiva a Trezza: «... sarebbe bene
ancora fare altra torre alli Faraglionj
che sono isolottj lontano da detto capo mezzo miglio incirca dove sono cale
comode per brigantini et già si intende, pochj annj sono, esservene stati et
haver fatto molto danno et questa torre ancora per essere in luoco eminente non
occorrerebbe farla molto grande la quale defenderebbe le cale che vi sono et
responderebbe con il Castello di Ghiace et col detto capo».
Nel 1583, è la volta del Camilliani[31],
che, dopo aver visitato le nostre coste (Enrico Blanco afferma che avvenne il
20 Aprile del 1584), si trovò d’accordo con lo Spannocchi nel ribadire
l’estrema pericolosità dei luoghi della Trezza: «Questa punta (del Piliere) è tutta pietrosa e si stende assai in mare;
a fronte della quale circa cento passi si veggono, tre scogli eminentissimi,
chiamati da Plinio nel terzo libro li Scogli de’ Ciclopi[32],
e che oggi son detti i Faraglioni, in canto al quali vicino a 25 canne si vede
un isolotto, il quale sarà di circuito circa duecento canne. Questo dalla parte
di mare ha di molte aperture atte a ricevere ed occultar bregantini: ma fra
quelle c’è una cala, che una galera arborata vi si può occultare, e dalla parte
di terra non può essere discoperta. Le rocche, che attorno l’abbracciano, son
tanto eminenti e scoscese, che dalle radici alla cima non è possibile montarci
sopra. Però essendo di tanto pericolo, si è designato farvisi una torre la quale è importantissima,
perchè spesse volte si è da terra visto spiccarsi dall’ isola i vascelli, i
quali per le minacciate fortune si sono ad altra parte andati a salvare; e non
molto tempo è passato, che, traiettandosi certe fregate da carico per quelle
marine, sono state da quella parte spesse volte assalite e depredate».[33] Per Camilliani sarebbe stata
importantissima una vera e propria torre sul Faraglione, come affermano
Mazzarella e Zanca[34],
tanto è vero che questi autorevoli autori manifestavano la convinzione che la Torre dei Faraglioni (o Faraglione)
sorgesse proprio lì (dato chiaramente smentito).
Il Bella ancora, in altra opera,
così affronta la questione della difesa della costa: «Uno dei primi problemi affrontati dalla città [Jaci, n.d.r.] dopo la reluizione al demanio fu quello
della difesa delle coste, in quei tempi ricorrentemente soggette a sbarchi
indesiderati da parte di corsari e predoni. […] Il Castello dotato di poca
artiglieria, non riusciva a difendere adeguatamente la rada, mentre la natura
della costa permetteva ai veloci navigli dei corsari di nascondersi tra le cale
ed insenature poco visibili dal lontano maniero. Inoltre, il Castello era
malvisto dai giurati e dai cittadini che poco o nulla se ne curavano. Non era
così per la torre. I giurati, già dalla seconda metà del Cinquecento, si erano
affannati a costruire un punto di avvistamento e difesa, proprio vicino al
porto [di Capomulini, n.d.r.], lì
dove una volta esisteva una chiesetta che denominava la zona. […] Dai primi
maldestri tentativi era nato un incompleto torrione che, basso e costruito in
un punto cieco, dava poco affidamento. Il torrione, ritenuto non idoneo dal
Camilliani[35],
fu presto abbandonato; non prima in ogni modo che, su progetto dello stesso
Camilliani, nascesse poco discosta un’elegante e funzionale Torre, la quale per
la sua saldezza avrebbe sfidato i secoli mantenendosi sino ai nostri giorni,
strutturalmente integra. […] Era uno dei tasselli di un sistema difensivo che
avrebbe trovato nel Seicento la sua completa realizzazione e, anche se non
poteva impedire completamente gli sbarchi, avvertiva in tempo la popolazione.»[36]
La Torre del Camilliani a Capo
Mulini, detta di Sant’Anna, fu completata in circa un ventennio, munita di tutto
il necessario e di uomini di guardia, divenuta fiore all’occhiello della difesa
militare costiera della città di Jaci, poi nel 1868, col mutare del sistema
amministrativo locale, convertita in faro, e funzionale sino ad oggi (c.d. Faro
di Sant’Anna o Capo Mulini). La fortificazione in un punto cieco, bocciata dall’architetto militare è ancora visibile nel porto della
località acese come ruderi di mura fortificate.
Nel 1584[37],
un anno prima dell’inizio dei lavori a Capo Mulini però (o in coincidenza),
l’armeggiare dei carpentieri dovette risuonare tra i Faraglioni come un triste
presagio: si costruiva un riparo per i soldati addetti al posto di guardia
nella cala della Trezza: una pennata per dare un minimo di riparo alle guardie
che si alternavano giorno e notte nel posto d’avvistamento con il compito di
segnalare con fumu di jorno e focu di
notti gli eventuali avvistamenti di naviglio nemico. Da quel piccolo riparo
sarebbe progressivamente nata la località marinara di Aci Trezza. La struttura
– a mio avviso, e per inciso – avrebbe dovuto essere di fabbrica vistosamente
diversa rispetto a quella del piano superiore, tanto da indurre De Maria e
Pellegrino a retrodatare il basamento di diversi secoli.
Tuttavia, ciò non escluse lamentele
da parte dei giurati di Aquilia verso i colleghi della Città di Aci
Sant’Antonio e Filippo, riportate in questi termini: «il nostro collega Bernardo Barrabino, viaggiando per la città di
Catania per mare mercoledì mattino, sendo sotto la guardia della Trizza, in quella guardia come non vi fusse stato non
vidde, né intese cosa alcuna e per correre queste cose infauste per levarse
ogne occasione …date ai guardiani ordini necessari. 7 Novembre 1655.»[38]
La presenza di guardiani nella
marina a Trezza è attestata da tempi molto antichi ma nel 1680 essi più
comunemente vengono chiamati torrari e aumentano come numero in quanto
diventano tre per torre: su ognuna prestano servizio un caporale, un artigliere
ed un soldato. I cannoni delle torri entravano in azione soprattutto quando
c’era qualche barca che non si voleva far attraccare per motivi vari (spesso
per pericoli contagio di epidemie, fenomeno continuamente ricorrente nel
passato).[39]
L’indagine storica ci ha condotti
alla scoperta degli atti relativi ai due bastioni sulla costa di Trezza, anche
rappresentati in famosi dipinti, come quello di Jacob Philipp Hackert
(1737-1807) denominato “Faraglioni rocks in Aci Trezza”, dove le due torri
spiccano, assieme al campanile della chiesa, nel profilo del caseggiato
dell’epoca, e quella più in alto, imponente, sovrasta il paesaggio, forte ed
autorevole, proteggendo il villaggio di pescatori dalle minacce di terra e di
mare. Una copia del dipinto è esposta presso la sagrestia della Chiesa San
Giovanni Battista di Acitrezza.
3.5 – La Torre dei Faraglioni
Incominciamo la trattazione con la
più risalente ed enigmatica delle costruzioni, quella che ha suscitato la
curiosità di storici, archeologhi dilettanti, scrittori, poeti ed amanti della
cultura e della storia locale.
L’osservazione di Tiburzio
Spannocchi, riportata da Bella, è della seconda metà del XVI, e non fa
riferimento a Torri o Bastioni già
presenti sulla costa della Trezza, tanto da dover esortarne una nuova
edificazione. Eppure notorio è il resoconto del Padre Arciprete Don Salvatore
De Maria da Acireale[40]
sui suoi ritrovamenti archeologici del primo novecento ad Acitrezza, che egli
stesso attribuisse ad epoca più risalente: «Sui
primi di questo mese [Luglio 1924 n.d.r.] Sebastiano Napoli, pescatore, volendo dalla parte di dietro allargare
la sua abitazione gettando le fondamenta delle nuove stanze, trova alla
profondità di un metro e cinquanta cmt il principio di un pavimento di marmo
bianco e lateralmente a questo verso nord altro pavimento a cocciopesto. Pare
che il Bastionello [Torre dei Faraglioni, n.d.r.] presso ove è stato fatto il rinvenimento
sia stato fabbricato sopra questi pavimenti: or siccome il Bastionello, secondo che si osserva nell’interno, sarebbe opera bizantina ne viene che
quei pavimenti non possono non essere anteriori e perciò almeno romani. Anche
quando si edificò l’altra limitrofa casa furono trovati muri di fortissima
fabbrica; e quando si edificò la casa del fu Mario Valastro di Lorenzo negli
scavi furono trovate monete bizantine e mattonelle a rombo come qualcuna è
stata trovata nella detta casa di Napoli. Rottami, pavimenti di lastre di marmo
furono trovati, scavando le fondamenta della casa del fu Luigi Viscuso del fu
Mariano con qualche altro rottame di marmo rappresentante animali; conservati
tutti questi cocci nella mia collezione»[41].
In altra carta il sacerdote ci
racconta: «Il materiale di scavo trovato
nel fare le fondamenta della casa di Luigi Viscuso del fu Mariano all’estremità
NO della piazza centrale di Acitrezza non consta che di parvulae crustae di marmo di piccolo spessore (Civ. Catt.
1541 – 5 settembre 1914 p.587) che mostrano dal residuo di malta ancora
aderente come esse fossero un rivestimento di parte o pavimento; qualche pezzetto
o coccio mostra un foro. Se le mattonelle romboidali [le mattonelle della
c.d. “trovatura di Pantolla”, n.d.r.] non
sono che pavimenti di sepolcri ad opus reticulatum chi vieta di opinare che dessi sepolcri non sieno stati ai lati
rivestiti di marmo bianco o pario, più tardi violati, ed oggi ridotti in
frantumi? Tuttavia debbo dire che un po’ più su nella Via Dietro Chiesa presso
il Bastionello nel cavare le
fondamenta di altra casa oggi rimasta in costruzione, dicono essersi trovato un
pavimento di lastre di marmo, nel cortile della quale si vedono ruderi di
fabbrica greca a piccole pietre dal mastice fortissimo…»[42].
Che il De Maria, nel tentativo di
dare una datazione avesse interpretato male l’architettura? O che
effettivamente un basamento di fortissima
fabbrica fosse stato la pietra d’angolo per il Bastionello, la nostra Torre
dei Faraglioni?
Ad ogni modo, la costruzione alla
quale il nostro interesse si pone è chiamato con diverse denominazioni: Bastione, Bastionello, Bastioncello, Centrale,
Garitta delli Stazoni, nonché
Faraglione, ma l’identificativo militare è senz’altro “Torre dei Faraglioni”. Enrico Blanco è più specifico: afferma che
mentre con Bastione è da intendersi la Torre della Trezza, con Bastionello
quella dei Faraglioni. Del secondo edificio è possibile affermare che sorvegliava lo specchio d’acqua dove
si ergono i faraglioni: controllava da vicino la Via del Castello e i movimenti
a Sud del paese. Era costituito da due piani, oggi è visibile solo il piano
terra (quello antecedente al 1672), al quale si accede da una piccola apertura.
Che fosse l’edificio voluto da Spannocchi e Camilliani? Il dato certo è che non
poca confusione è stata ricamata attorno a questo edificio assieme ad un altro
(o altri), detto “Torre della Trezza”, di
cui di seguito si dirà.
L’edificio in primo esame è
correttamente citato dal Massa nel 1709 (torre delli Faraglioni)[43],
ma nel 1713 il Castellalfero racconta dell’esistenza di due torri ad Aci Trezza aventi medesimo toponimo e delle quali la
prima, «…distante qualche 100
passi dal lido… custodita da tre uomini di guardia e munita d’un pezzo di
cannone di ferro et altro di metallo. Attorno ad essi si trovano varie case,
quali formano la terra della Trissa…”, è da considerarsi propriamente la Torre dei Faraglioni.
Cinque anni dopo la “Torre dei Faraglioni” risulta armata di
un cannone di metallo da 3, altri di ferro da 5 con cassa a ruote, due
moschetti su cavalletto, polvere, palle, miccia e attrezzi ausiliari per
artiglieria.[44] L’armamento era costituito nel Maggio
1798 da due cannonotti, 25 rotola di polvere da sparo, 18 palle di ferro, 16 di
pietra, mentre nel 1839 era di un cannone di metallo e un cannone di ferro.[45] Ancora
nel 1757 ci ricordano solo di due edifici fortificati sulla costa trezzota.[46]
Il motivo per cui la storia delle
due torri, dei Faraglioni e della Trezza,
è indissolubilmente intrecciata a partile dal XVIII secolo sta nel fatto che
nel 1690 è il Principe don Luigi Riggio (o Reggio) e Giuffré a far edificare la
Torre della Trezza, e contestualmente
far riparare quella dei Faraglioni,
inglobandola definitivamente fra le sue pertinenze e responsabilità. Abbiamo
quindi conferma, da quanto emerso dagli stessi atti che il Principe spedisce
alla Deputazione del Regno (e che dopo si dirà) che la prima torre preesiste a
Riggio.
Nel dettaglio, così scrive Enrico
Blanco: «I Riggio, come abbiamo visto,
rafforzarono la vecchia garitta, che d’allora fu orgogliosamente chiamata dai
giurati “la nostra torre”[47]
e, nell’insieme delle fortificazioni, ne crearono un’altra, ancora più alta.
Stavolta però la spesa fu caricata sui donativi regi; d’altra parte le torri
furono prese in cura dalla Deputazione del Regno.»[48],
proseguendo «E’ mastro Salvatore D’Amico, caput magistrorum, che ha l’incarico di guidare i lavori “pro
servitio Turris Praedictae et pro fortificatione fabricae parietum supradictae
maritimae constructae et costruendae in posto nominato della Trizza e nel
baluardo delli Stazioni”. Il 30 Aprile
1679 fa un rendiconto del materiale che gli è stato consegnato.»[49]
Il poeta e narratore Santo Pellegrino – che ha deliziato
i suoi compaesani con mirabili e memorabili racconti, anche ambientati sul
Bastionello - ha così scritto: «Son venti secoli ch'è sempre lì l'antichissimo
rudere romano; il Bastione, fu chiamato così ancor prima dell'Impero cristiano?
Dominava la spiaggia alto e solenne, a difesa della costa e del mare contro il
nemico, che spesso qui venne? Sfida il lungo tempo il vecchio maniero oggi
lontan dal mare, tra le case; non è più il gran baluardo costiero, ch'a difesa
di Trezza era la base.»
Questo conosciuto ed importante
personaggio della storia recente di Acitrezza, in un suo saggio, ci racconta
un’altra storia, e cioè che le torri ad Aci Trezza erano addirittura tre.
Secondo la sua testimonianza «il bastione grande [Torre della Trezza, n.d.r.] si trovava sulla
collina e serviva da vedetta per avvistare l'arrivo dei nemici; il centrale [Torre dei Faraglioni, n.d.r.]
e il “bastionello” [qui Terza Torre, n.d.r.] costituivano da Levante a Ponente,
invece, gli avamposti del Castello di Aci, facendo parte di un sistema di
difesa più avanzato rispetto al primo. I bastioni erano caratteristici per il
fatto che non vi era nessuna possibilità di passare dal piano terra al primo
piano. Del bastione grande e del bastionello non esistono tracce. Il primo,
opportunamente sistemato, servì, nella prima metà di questo secolo, per lungo
tempo come serbatoio d’acqua, sino alla costruzione del nuovo. Venduto poi dal
Comune, unitamente al terreno adiacente, oggi al posto del vecchio fortilizio,
sorge una signorile villa. L’unico visibile
– egli afferma - si trova in Via
Bastione, in una stradina che fa angolo con via Provinciale. Il fortilizio doveva essere occupato
dall'esterno con scale di legno o corde. Il bastione piccolo era in riva al
mare, tra la via Provinciale e la stradetta, erroneamente denominata Via
Bastianello, anziché Bastionello. Oggi vi è un negozio e una casa di abitazione.»
Non si hanno in verità altri riscontri storiografici
dell’esistenza di una Terza Torre (che secondo il Pellegrino dovesse sorgere in
cima all’attuale Via Provvidenza, ad Acitrezza), che egli chiama Bastionello
(diverso da quel Bastionello o Bastioncello che è la Torre dei Faraglioni, che
egli chiama bastione centrale, parlando con le sue parole). Pellegrino ci
induce a immaginare che Bastione e Bastionello fossero due costruzioni diverse,
di cui è rimasta prova solo del primo (oggi comunque sminuito, nell’essere
chiamato tuttavia talvolta come l’altro).
Non riscontrando negli atti ufficiali dell’Archivio di
Stato di Palermo, e negli altri autori, una concordanza con Pellegrino, è da
ritenere al riguardo voce unica. Oltretutto, al tempo della contemporanea
esistenza di tutte le torri a Trezza, quasi certamente il Castello, prima
destinato a carcere e poi dismesso, non giovava più come torre difensiva o
palazzo di potere, né tantomeno le torri di Trezza ne erano un avamposto. La
svista del Pellegrino potrebbe essere sorta dall’attribuzione erronea dei tre
edifici insieme alla mano romana, infatti egli afferma: «Tutti e tre sicuramente di origine romana, come di può facilmente dedurre
osservando quello centrale, l’unico oggi esistente ed ancora in ottimo stato
perché restaurato ad opera di bravi operai restauratori per esclusivo
interessamento di due persone trezzote (padre e figlio), le quali hanno esposto
denuncia al dott. Consentino, Pretore di Acireale, contro il Comune i
Acicastello, proprietario del rudere, insensibile ai ripetuti esposti inoltrati
a causa della continua caduta di massi. In esso è largamente impiegato il
quadrone romano, grosso mattone di forma quadrata di circa 50 centimetri di
lato, molto usato nelle costruzioni realizzate da questo popolo.»[50]
La mano romana che afferma Pellegrino è non
condivisibile. Ebbene, se la Torre dei
Faraglioni risale 1625 nel suo piano terra (come afferma Enrico Blanco) ed
al 1672 la versione completa del terrazzo (come dice l’Amministrazione Comunale
di Acicastello, ma in palese difformità al De Maria), a le Torre della Trezza è di vent’anni più tardi (Documentazione ASPA),
può la Terza Torre, quella del Pellegrino essere la pennata per dar riparo alle guardie citata da Saro Bella, voluta da
Spannocchi e Camilliani? Una ricerca accurata all’Archivio storico di Acireale
potrebbe dare la risposta corretta (nonché giustizia al Pellegrino,
limitatamente alla terza torre); fatto sta che l’estrema vicinanza della Terza
Torre a quella dei Faraglioni potrebbe essere giustificata solo da una sua
eventuale preesistenza, e le uniche date che possediamo, orbene, non lo
escludono.
Nel 1690 era, beninteso,
responsabile della Torre dei Faraglioni,
su mandato della Regia Deputazione, il principe di Campofiorito con obbligo di rifornire
l’edificio di armi e pezzi di artiglieria.[51]
Nello stesso periodo si muniva la torre di “…un cannone di bronzo di calibro
da 2 con sua cassa e ruote, un cannone di ferro di calibro da 5…”.[52]
Da altra fonte si apprendono i nomi della guarnigione di stanza nell’edificio
turrito: Francesco Catanzaro, m° Giuseppe Finocchiaro, Ignazio De Oddo
(indicati come custodi della “garrita
delli stazoni”), poi Ottaviano Bellofiore, Mario Spina e Giovan Battista
Maugeri (che ricevono 12 onze il 12/8/1680 per il loro soldo)[53]
ed anche «… Filippo Grillo Caporale della torre
delli Faraglioni nuovamente edificata nella marina di Jaci SS. Antonio e
Filippo, eletto con la nomina di tre persone fatta dall’illustrissimo Principe
di Campofiorito Soprintendente di essa torre… 6 nov. 1690. Nota che la morte di
detto Filippo Grillo… in suo loco è stato eletto Francesco Grillo… con soldo
onze 3 al mese… Nota che per la morte di Francesco Grillo venuta a giugno… 1699
in suo loco è stato eletto Domenico Bitto; Giovanni Mario Chiarenza artigliero
della torre delli faraglioni
novamente edificata eletto con la nomina di tre persone fatta
dall’illustrissimo Principe di Campofiorito … 6 nov. 24 Ind. 1690. Nota che per
la renunzia di detto di Chiarenza… delli 9 nov. 1691 in suo loco è stato eletto
Angelo Grillo…”.[54]
Infatti così segue: Francesco Grillo (“stante
morte secuta” del fu Filippo, suo padre), Angelo Grillo e Michele Castorina
rispettivamente, caporale, artigliere e soldato. Nel 1717 Carlo Castorina
(Caporale), Giovan Battista De Torre (Artigliero), e Giuseppe Puglisi (soldato)
“della
Torre delli Faraglioni” dichiarano di avere: “due cannoni (uno di ferro di 5 libbre di palla, e l’altro di bronzo di
3 libbre di palla) armati con cascie e rote, pronti all’uso; due moschetti coi
soli cavalletti; 50 rotula di polvere, 18 palle di ferro; 7 mazzi di meccio di
3 rotula di peso; una cochiara, un rifilaturi; due tiralana, un buttafoco.” Il marchese di Villabianca menziona, nel
1797, la torre “…che domina la marina di Jaci S. Antonio, di cui tiene
la soprintendenza il principe di Jaci, Reggio…”.[55]
Nel 1805 la dotazione bellica della torre risulta relativamente ridotta a un
solo un maschio di bronzo e ad uno di ferro con un presidio di tre uomini.[56]
L’anno successivo la Regia Deputazione evidenzia la necessità di riparazioni e
manutenzioni. A tal proposito l’Organo invia al Principe di Jaci una lettera
nella quale si evidenzia la “… gran rovina che sta minacciando le torri Trezza e Faraglione che sono
sotto la soprintendenza di questo Signor Principe di Aci…”[57]
e successivamente si esprimono lamentele per la mancata edificazione di una
scala (il documento non specifica in quale delle due torri si avvertisse la
necessità di costruire una scala). Nel 1807 si registra un’ulteriore
esortazione da parte della Regia Deputazione affinché si apprestino le urgenti
riparazioni relative ad entrambe le strutture.[58]
Entro la prima metà del XIX secolo la torre ospita solo un cannone di metallo e
uno di ferro.[59] Nel
1986 si restaura la torre con interventi di consolidamento e sgombero ad opera
dell’Architetto Michele Menzo.
La Torre dei
Faraglioni, beninteso, realizzata (l’Amministrazione
comunale ha appostovi una targa con data 1672, ma se così fosse si smentirebbe
il De Maria che l’attribuiva all’epoca bizantina, e il Bella che la colloca nel
1584, ed il Blanco al 1625 – la data del ’72 è quella del secondo piano)
secondo una pianta rettangolare di circa 7 per 8,20 m. e un’altezza attuale di
circa 10m. (in origine forse 15 metri), si distingue per una tecnica edilizia
composta da pietra lavica leggermente sbozzata e inzeppature di laterizi; i
cantonali si presentano rinforzati da pietre squadrate, ancora esistenti in
particolar modo lungo il lato orientale della struttura (probabilmente anche
causa recenti restauri). Inoltre l’edificio si presenta leggermente scarpato,
con un piccolo ingresso ad arco lungo il lato occidentale. E’ impossibile
ottenere una perfetta lettura del complesso: moderni edifici letteralmente
offuscano la fortificazione e un notevole innalzamento del piano di calpestio,
particolarmente evidente lungo il lato occidentale, non permette di percepire
la costruzione per l’intera sua altezza. Un sottile marcapiano in conci lavici
divide dal piano terra il primo piano, che è caratterizzato da tre superstiti
muri perimetrali e dai resti, lungo il lato occidentale, di una piattaforma
aggettante, sorretta da mensoloni su doppio ordine in pietra lavica sagomata.[60]
Don Salvatore Coco da Ficarazzi[61],
componendo i diversi orientamenti dei suoi predecessori in argomento, ed esponendo
una condivisa panoramica degli eventi, ci dice in una raccolta di racconti su
Acitrezza che «l’intera costa ionica,
anticamente, era sorvegliata da una catena di torrioni tra loro collegati da
segni convenzionali fatti di giorno dal lampeggiare di specchi e colonne di
fumo mentre di notte da bagliori di fuoco. Si avevano in buon ordine: il
Castello di Aci, i due bastioni di
Trezza, la Torre di S. Anna, la fortezza del Tocco sulla Timpa di Aci, e
tante altre torri di avvistamento e tutte ben coordinate tra loro. Nel
territorio di trezza dunque vi erano due
bastioni, uno più in alto, chiamato “Bastione
Grande o di Trezza” poi trasformato in serbatoio d’acqua e in abitazione e
il più piccolo detto “Bastionello o
Torre dei Faraglioni”. Quest’ultimo si è salvato dalla distruzione. Suo
compito era quello di sorvegliare il tratto di mare davanti ai faraglioni. Era
stato costruito su un’altura, dove vi erano delle precedenti costruzioni.
Diverse sono le ipotesi. Probabilmente in quel medesimo posto vi era una villa
patrizia, tesi questa avvalorata dalla possibilità di attingere acqua dai
diversi rivoli che scorrevano nelle adiacenze. Quella costruzione venne
distrutta per devastazione o per altre cause e nel periodo bizantino quei
ruderi superstiti vennero modificati e usati come sepolcri gentilizi, mentre
sul lato opposto del paese, nei pressi della cappella della Madonna a Nova, vi erano altre sepolture, ma destinate a
ceti poveri. Le fondamenta del Bastionello
poggiano, appunto, su questi ruderi, e, in tempi passati, era anche possibile
individuare elementi della precedente costruzione. Quando venne costruito
questo torrione non c’era alcuna costruzione che ostruiva la visibilità e
questo fino al 1749, anno in cui il Principe Don Luigi Riggio [Branciforte,
n.d.r.] fece iniziare i lavori di
costruzione del suo maestoso palazzo, munendolo di un terrapieno bastionato
contro le incursioni delle navi turche. Il Bastionello invece continuò la sua
funzione ancora per molti altri decenni. Aveva in dotazione alcuni cannoni,
polvere da sparo e palle di pietra e di ferro. Attorno alla torre vi erano
delle povere costruzioni per le famiglie dei conservanti frequentemente
coinvolte nella fuga davanti alle pericolose incursioni piratesche. Nella prima
metà dell’Ottocento l’intera costruzione fu abbandonata perché erano mutati i
tempi difensivi. […] Il curato [di allora, don Cristoforo Cosentino, alla
ricerca di una casa canonica, n.d.r.][62]
avendo notato il Bastionello in abbandono pensò che opportune trasformazioni potesse
essere accomodato come luogo di abitazione. Fece domanda al Comune che
prontamente lo concesse. Ma al momento di iniziare i lavori di adattamento egli
notò come lo spazio intorno al torrione era già stato occupato da alcuni
abitanti. Allora don Cristoforo Cosentino, per evitare inutili conflitti,
distolse il suo pensiero dal fabbricarvi la canonica perché la sola torre era
insufficiente. Così potè restare integro il Bastionello e giungere sino a noi.
Ora anche se circondato da abitazioni, il torrione è un silenzioso testimone
delle vicende travagliate di un tempo.»[63]
Si noti come don Salvatore Coco non
menzioni una terza torre (restando in armonia con la maggior parte delle fonti)
come gli altri, ed identifica senz’altro il Bastionello con la Torre dei
Faraglioni; avvalora le ipotesi del De Maria sulla risalenza del basamento
romano, ma restano incerte le date, e soprattutto i riferimenti in un
interessamento bizantino della costruzione. Una approfondita ricerca presso
giornali periodici (come Civiltà Cattolica, col quale collaborò il De Maria nel
corso dei suoi studi) o la collezione archeologica del De Maria di marmi e
cocci (conservata presso la Pinacoteca Zelantea di Acireale) potrebbe dare un
ulteriore chiarimento sul punto, considerando anche che: la dominazione
bizantina in Sicilia risulta dal 535 al 963, preceduta in vero da quella
erulo-ostrogota (493-555) e quella vandala (440 – 493), per poi essere
succeduta da quella islamica, normanna, sveva, angioina ed aragonese, prima di
arrivare, un millennio dopo, a quella spagnola dei vicerè. Le possibilità che
l’attribuzione storica rimanga incerta appaiono non poche.
Le fondamenta dell’edificio
farebbero condividere l’ipotesi bizantina o tardomedievale della fabbrica, ma
sarebbe più utile, ai fini di una genuina considerazione, capire l’utilità di
un edificio di quella portata (sopra una possibile villa patrizia) in un epoca
(Medioevo) in cui si presume non esserci agglomerato urbano e abitato umano
rilevante.
Dati più certi, per fortuna, si
hanno invece (vicende, committenza, costi di costruzione, etc.) della seconda
(e diremmo anche ultima) Torre, quella detta della Trezza, da alcuni semplicemente etichettata come “scomparsa”
o “non più visibile”, sicuramente non più visitabile, forse alla ricerca di
ruderi o mura in rovina o in riuso, ma dai più accorti evidenziata come
“trasformata” o, come si vedrà più avanti “convertita”.
3.6 – La Torre della Trezza
Curioso è il caso del secondo
bastione, la Torre della Trezza (voluta
dal Principe don Luigi Riggio e Giuffré nel 1690)[64],
che Salvatore Coco e Santo Pellegrino concordano essere stata trasformata prima
in serbatoio d’acqua potabile (un dato storico ci suggerisce l’anno 1893), e
poi in villa (edificio residenziale ancora oggi visibile sulla collina di Aci
Trezza). Monsignor Alfio Coco da Ficarazzi[65]
ci conferma ancora il fatto: «Via
Serbatoio portava al serbatoio d’acqua che stava in alto. Questo serbatoio
d’acqua fu trasformato in casa per abitazione ed è quello che è di fronte a
detta via e rimase sulla Via Nazionale.»[66] Scrutando
in alto dalla scalinata di Via Serbatoio non si può non notare il severo
edificio quadrato che sormonta un alto muro della Strada Statale 114, Via
Livorno, oggi plausibilmente rimodellato e ridimensionato, ma riconoscibile: da
una foto del 1890 ed un dipinto di un secolo prima, la Torre in questione
apparirebbe più larga, pronunciata sul versante Est; si presume sia avvenuto un
accorciamento per far spazio alla nuova strada statale.
La Torre della Trezza, divenuta prima serbatoio e poi villa (alla quale si accede da Via Livorno,
e che lambisce la Via Litteri), era la più grande e sorvegliava il mare
aperto e quello verso Capo Mulini, si trovava a nord del paese su un’altura,
ricordata da molti testimoni di quei secoli quasi ad assurgere a simbolo
militare della località marinara. Pippo Lo Cascio ci dice che «Una campana di bronzo
era collocata nella torre Trizza Val Demone nel territorio di Iaci Reale»[67]
posta ad uso comunicativo (nel susseguirsi storico è plausibile che campane
in bronzo abbiano sostituito specchi, fumi e fuochi, passando da un sistema di
messaggistica visiva ad uditiva; oppure molto più semplicemente veniva usata
per avvisare gli abitanti del vicino centro), d’allarme, d’emergenza, etc. Il
riferimento alla campana è anche attestato dalle diverse dichiarazioni delle
guarnigioni di guardia presso la Torre, come si vedrà.
I documenti storici, fra i più
attendibili ed affidabili in nostro possesso, ci informano che, oltre alla già
trattata Torre dei Faraglioni, vi è
quindi un’altra Torre, come detto (rammentata in subordine non per importanza
ma per cronologia), “… in posto più elevato e distante qualche passi 200… detta pur della Trizza qual è munita di
4 cannoni di ferro et uno di metallo e custodita da uomini di guardia…” si
identifica con la “Torre della Trezza”,
al tempo armata pesantemente, come una piccola fortezza[68],
dovendola immaginare irrimediabilmente come la struttura difensiva più
importante della località, e sovraordinata a quella dei Faraglioni. Posta al di sopra della costituenda Chiesa di San
Giovanni Battista (di questa i lavori sarebbero cominciati circa sette anni
dopo), e collocata più in alto di qualsiasi edificio dell’allora centro urbano,
sarebbe stata la più sicura vedetta, posta a garanzia della pace dello scaro.
Si noti ancora, come nelle foto più
risalenti, risulta chiara la presenza di un edificio posto alle spalle della
Chiesa, su un’altura; si tratta proprio della nostra Torre: la collocazione,
oltre a non esse casuale, non è neppure usuale (per le case dei pescatori del
1890, si badi bene) il che ci conferma come oltre un secolo fa, solo una
costruzione con un ruolo ben determinato (vedetta e difesa) poteva trovarsi in
quella collocazione.
Nell’Anno del Signore 1690, nel
giorno 18 del mese di Marzo, il Principe don Luigi Riggio e Giuffré, signore
della Città di Aci Sant’Antonio e San Filippo, con un memoriale conservato
presso la sede Gancia dell’Archivio di Stato in Palermo, promette alla
Deputazione del Regno di fabbricare presso i luoghi dell’Università della
Trezza una Torre della marina della città. I lavori sono stati condotti dal
Mastro Capo Salvatore D’Amico, con fattura datata 29 Settembre 1692.
Di seguito il testo notarile di
Bartolomeo Drago del memoriale: «Per la Torre della Trizza è da sapersi come
nell’anno 1690, tempo in cui l’Eccellentissimo Signor Principe di Campofiorito
Don Luigi Riggio e Giuffré, possedeva la Città, e li quartieri d’Aci
Sant’Antonio e Filippo, e conoscendo questo Signor Principe la grave necessità,
che era di una torre di guardia nella marina di questa città, ricorse un suo
memoriale all’Illustrissima Deputazione del Regno affinché avesse permesso di
fabbricarsi detta Torre. Per la fabbrica della quale altro non doveva assegnare
che once 1443, che dovevano alcune Università[69]
del Regno dal 1653 per tutto l’anno 1690 per decorsi delle donative di Ponti,
Torri, Vegenti, di conto libero non assegnato stante che tutto quello che
avesse abbisognato di vantaggio per detta fabbrica s’obbligava esso Signor
Principe spendendo de proprio, come per detto memoriale con altre obbligazioni
in questa è. Quale domanda fu fatta buona e perciò tra la detta Deputazione ed
il detto Signor Principe di fece un atto per cui la detta Deputazione diede la
facoltà al detto Signor Principe di fabbricare la detta Torre nella marina di
detta città di Aci Sant’Antonio e Filippo, dovendosi quella nominare la Torre della Trizza, più assignò
all’istesso per la fabbrica di detta Torre le dette 1443 onze contro diverse
università descritte in detto atto. E per lo mantenimento del Caporale,
artigliero, e soldato di detta Torre s’obbliga di contribuire quarantadue
annuali, cioè dieciotto per lo Caporale, duodeci per l’artigliere ed, duodeci
per lo soldato. Ed il detto Signor Principe s’obbligò a spendere de proprio
tutta quella somma, che per la perfezione di detta Torre vi voleva di più delle
dette 1443 onze, più s’obbligò fare a sue spese l’artiglieria e gl’altri armi
necessarj per servizio di detta Torre; somministrare in ogni tempo la monizione
di palle, polvere, meccio, e mantenere in esse la detta artiglieria in armi a
sue spese e nec non dare il supplemento del mantenimento del Caporale,
Artigliere e Soldato di detta Torre che fosse stato di bisogno di ppiù delle
dette 42 once annuali che dovea contribuire la detta Deputazione e finalmente
si convenne che dovea essere il sovrintendente di detta Torre, il detto Signor
Principe, e li soi successori nel detto Stato e città di Iaci Sant’Antonio e
Filippo, colla potestà di nominare in occasione di una vacanza detti posti di
Caporale, Artigliero e Soldato di detta Torre, tre persone per doversi esigere
dalla detta Deputazione del posto vacante ad uno delli tre nominati come meglio
per detto contratto fatto agli atti di Notaio Bartolomeo Drago di questa città
di Palermo a 18 Marzo al 13 ind. 1690 in questo è. E lo stesso giorno della
medesima Deputazione si spediro per le 42 once annuale che la stessa
Deputazione si avea obbligato contribuire per li salari del Caporale,
Artigliere e soldato di detta Torre, le quali 42 furono assegnate cioè 2:13
sopra l’Università di Bonaccorsi, 25:21:10:3 sopra l’Università di Biancavilla,
11:12:3 sopra l’Università della Trizza,
come per dette lettere spedite sotto lo stesso giorno lì 23 Aprile 1690 in
questa è.»[70]
Oltre all’importante dato (corredato
dai lunghi elenchi di nomi dei lavoratori presso i bastioni: caporale,
artigliero, soldato, ma anche manovale, mastro, mastro capo, rifocillieri di
cibo e d’acqua, serventi, etc.) che la Trezza, a far data 1690 era Università,
e cioè Comune del Regno, secondo l’organizzazione amministrativa dell’epoca,
emerge anche dagli atti dell’Archivio di Stato in Palermo, che a seguito del
disastroso terremoto del 8 e dell’11 Gennaio 1693 (doppio evento tellurico che
provocò a Trezza 17 morti e la distruzione della Chiesa di San Giuseppe) furono
rovinate le due Torri, della Trezza (appena completata) e dei Faraglioni, per le quali il
Principe Luigi Riggio e Giuffré chiedeva alla Deputazione del Regno 1000 once
per il ripristino delle strutture militari; ecco che il 6 Febbraio 1693 si
stanzia una somma pari a 1000 once per il restauro delle torri “Trizza e Faraglioni”, entrambe
sotto la sovrintendenza del detto Principe di Aci. Sarà il figlio, Stefano
Riggio Saladino, a scegliere l’area antistante le torri, in riva al mare ed
accanto il corso d’acqua del Feudo, per l’edificazione del suo Palazzo qualche
anno più tardi (oggi scomparso).
La lista fornita degli armamenti di
questa testimonia della diversa consistenza rispetto all’altra torre; se in un
primo momento la guarnigione era formata da Paolo Puglisi, Innocenzo Costarella
e Mario Caraffo, al 10 Aprile 1717[71]
si hanno Francesco Crieleiso (caporale), Angelo Grillo (artigliere) e Santo
Castorina (soldato) della “torre seu bastione della Trizza”
dichiarano di avere in consegna dal Duca Montis Albi, procuratore del Principe “gli infrascritti cannoni per uso delli
medesimi e della terra: 4 cannoni di ferro “armati con sue cascie e rote atti a
disparare; di questi, il primo piglia di palla libbre novi di Sicilia, il
secondo libbre otto e gli altri due libbre sei; un pezzotto piccolo di bronzo
che piglia di palla, libbre 4; un mascuolone di ferro per avviso; 3 moschetti
con soi cavaletti; 80 palle di cannoni di ferro; cantaro uno e rotula 30 di polvere
da disparare; 30 mazzi di meccio di 12 rotula di peso; 3 cocchiari; 3
rifilaturi; un tiralana; un rascaturi; un buttafero; una campana di bronzo atta
a sonare”. Vi erano ancora tre cannoni di ferro ai piedi della
torre, “senza cascie e senza rote”,
non “atti a disparare”; di palla, il
primo era di 5 libbre, gli altri due di 3 libbre.
Si ritiene che non solo a scopi
militari ma anche a fini festivi il cannone tuonò dalla Torre della Trezza, così come avvenne nel corso dei decenni di
attività al passaggio di eminenti autorità civili, ma soprattutto religiose -
si dice – anche con maggior vigore rispetto alle ai mortai del Castello.
Nel 1728 è il Vescovo di Catania a
parlarne, in visita pastorale ad Acireale: “Una
Torre elevatissima, detta La Trizza, che protegge una stazione di navi nella
spiaggia sabbiosa e piana”.
Il
suo armamento nel Maggio del 1798 era costituito da cinque cannoni, 45 rotola
di polvere da sparo, 60 palle di ferro. Le successive vicende legate alla manutenzione e
fornitura della Torre della Trezza
sono già state indicate sopra, in riferimento alla Torre dei Faraglioni, alle quali pertanto si rimanda. Terminato
l’uso militare, qual è stato il destino della costruzione? Abbiamo visto che la
Torre dei Faraglioni è scampata alla
riqualificazione in casa canonica (e quindi sopravvissuta sino a noi come luogo
monumentale ed attrattivo, meta di itinerari turistici e percorsi didattici),
ma della Torre della Trezza i fatti
hanno visto il realizzarsi d’altro.
In alcune lettere del Luglio 1806 –
ci informano Mazzarella e Zonca - la Deputazione del Regno ingiunge al
capomastro Gerardi di recarsi sul luogo poiché la Torre minaccia rovina; sono
necessarie riparazioni e mancano archibugi e munizioni. La presenza degli
stipendiati per le torri è attestata fino al momento del distacco dalla città
di Aci Sant’Antonio e Filippo.
Nel 1839, per disposizione
dell’allora Ministro della guerra, tutto il materiale bellico delle fortezze fu
requisito per essere inviato alla Piazza di Messina, dove finì nelle fonderie.
Sappiamo dal Verbale di consegna del 7 Ottobre[72]
che i pezzi requisiti di cui disponevano i bastioni trezzoti erano cinque cannoni, affusti e cucchiai.
Il 16 Agosto 1860 il Presidente del
Consiglio castellese[73]
Francesco Nicolosi riferisce al governatore distrettuale che sa “che con certezza che in Acitrezza si sta
demolendo la fortezza che sta di sopra la Chiesa, non so per ordine di chi…”. All’invito
del governatore a contravvenzionare i colpevoli, così risponde Nicolosi il
successivo 6 Settembre: “mi sono portato
sulla faccia del luogo e trovato dei diroccamenti; mi sono abboccato con quel
(di Trezza) giurato che non più facessi la ruina…”[74],
ma si dubita sull’effettivo arresto della demolizione (le immagini antiche
lo attestano).
Nel 1870 compare una lettera di
alcuni trezzoti al sindaco con una ferma protesta contro il guardiano rurale di
quella borgata, Francesco Russo, “perché
non vigila sui terreni del Demanio Pubblico Comunale” e “si hanno usurpato un tratto di terreno del piano innanzi la chiesa,
come ancora il piano contenente il bastione e altri vari punti”.[75]
Enrico Blanco, nella sua opera
dedicata alla Trezza, lo definisce come un piccolo terrazzo a strapiombo, oggi
sulla statale 114, proprio di fronte alla Via Serbatoio (tale infatti divenne
nel tempo): «Solo qualche storico di
grossolana superficialità colloca il bastione in altra zona di Trezza. In
realtà, a parte i ricordi degli anziani, nella pratica per il cimitero
castellese[76]
il sottoprefetto di Acireale, in una nota al Prefetto del 10/12/1871, afferma
che per i bisogni cimiteriali di Acitrezza (si seppelliva nella Chiesa di San
Giovanni) “in una località soprastante il paese, ove era un antico forte,
esistono due camere sotterranee, senza coperto, le quali possono essere vuotate
dalla terra, che le riempie, coperte a volta e cinte di mura, ed ivi potrà
stabilirsi un provvisorio cimitero”. Quindi
rispetto al Bastioncello che era formato da un unico vano, il bastione si
ergeva su due ampie camere che tuttavia non ospitarono mai dei cadaveri.
Infatti, alcuni anni dopo, in quel luogo fu costruito il deposito delle acque
potabili, come si può notare dal verbale di consegna dei “lavori di
conduttura delle acque potabili nella borgata Acitrezza” all’appaltatore Giuseppe Rasà in data 5 Dicembre 1893[77].
Vi è scritto che il serbatoio dovrà
costruirsi “nel sito detto il Bastione, nel perimetro a tramontana del
caseggiato di Acitrezza”. Fu un grande
avvenimento, per inciso, l’arrivo dell’acqua ad Acitrezza. Scrive il Sindaco
Sebastiano Marletta al sottoprefetto di Acireale il 6/6/1894: “…ricorrendo
in questo mese e precisamente il giorno 24 la festa di San Giovanni, patrono
della frazione di Acitrezza, gli abitanti della stessa hanno spontaneamente
manifestato il desiderio di festeggiare anche, il giorno 24, l’arrivo
dell’acqua nella borgata, la qualcosa sarà di grato ricordo a quei popolani”…»[78]
Come ci suggerisce Pellegrino, nella
sua “Acitrezza nella Storia”, il Comune a metà ‘900 vendette a privati
l’edificio, destinandolo a Villa.
Così termina anche la vicenda della Torre della Trezza, l’ultimo baluardo
fortificato della località marinara, voluto da Riggio, e giovato alla
popolazione in tutte le forme possibili: da bastione difensivo, al possibile
cimitero, a serbatoio d’acqua potabile ed in fine, quando più alla collettività
non poteva offrire altro servigio, privata dimora.
Ritengo che tutto quanto scritto sin
ora, raccolto, ricercato, indagato, citato e riportato da Autori, Archivi,
Fonti, Mappe, Fotografie, etc., sia – auspicando in una evoluzione futura – la
più ampia relazione in tema di Torri fortificate della località di Aci Trezza
di cui oggi disponiamo.
La storia di Acitrezza è passata per
i timori e le cautele di un’autodifesa turrita del territorio, nella protezione
militare ad opera dei regnanti ad onta delle invasioni saracene. Lo sforzo
bellico si è tradotto in due edifici ancora visibili, fantasmi del tempo che
fu, testimoni di un bisogno di tutela che ci ha fatto conoscere l’importanza
dei luoghi tra il XVI ed il XIX secolo.
Si dice che mentre il bastione
grande servì da serbatoio, il piccolo servì invero da ripostiglio e pollaio
(mutano i tempi, mutano le esigenze, mutano gli usi); si dice anche che
Acitrezza ha origini più antiche rispetto alle cifre esitate dagli accademici;
si dice che la popolazione dello scaro della Trezza sia stata maggiore e da più
tempo presente nella cala, fra gli scogli ed i Faraglioni; si dice che le Torri
effettivamente svolsero il loro ruolo difensivo contro i turchi, respingendo
gli attacchi dal mare a colpi di cannone; e ci piace pensare che sia tutto
vero.
Si immagini l’ambiente: le navi
nemiche che avanzano dall’orizzonte, o da dietro il Capo dei Mulini, o da oltre
la rocca Saturnia; il fumo di segnalazione delle Torri che si leva in alto per
segnalare l’assedio; la campana di bronzo che allarma gli abitanti della
Trezza, le urla delle donne impaurite, i fischi delle palle di pietra che
attraversano il cielo dei Faraglioni, le esplosioni dei mortai, la polvere
delle mura sbriciolate dai colpi nemici, la paura di perdere tutto.
Ritengo che la piena attività delle
torri non superò i cinque o sette decenni; lo scampato pericolo turco di fine
settecento attenuò l’allerta spagnola, e le forze si concentrarono solo sulla Torre della Trezza, per poi essere
ridestinata, come detto, ad altro uso.
L’importanza storica di questi dati
e dei rinvenimenti archeologici deve far prendere coscienza dello spessore
culturale che avvolge la terra che calpestiamo e le pietre che si mettono da
parte per far largo al cemento. La sensibilità che ci coinvolge nel capire
quali sono stati i fatti del nostro passato ci suggerisce di preservare e valorizzare
ciò che resta, per far spazio non già a palazzine, ma alla cultura, alla scienza
storica ed alla scoperta.
3.7
– Reveli
Fondo: Deputazione del Regno - Sede Catena
dell’Archivio di Stato di Palermo[79].
1. Numero corda
820, Anno 1584 – 1651
Elenco di nomi
di Famiglie del Comune di Aci Castello: censimento circa il numero di
componenti di ciascuna famiglia con età di questi all’atto della registrazione.
Le pagine del libro (ricostruite e restaurate in larga parte) si presentano
quasi completamente sbadite, e le parole chirografiche si leggono appena.[80]
2. Numero corda
820B, Anno 1584 – 1651
Raccolta di
pratiche giudiziarie dei cittadini censiti residenti nel Comune di Aci
Castello: descrizione delle vicende e delle tappe processuali. Le parole
chirografiche del testo si presentano in una lingua ibrida tra lo spagnolo, il
latino e l’italiano.[81]
3. Numero corda
1870, Anno 17_ _ (non si capisce: forse 1744?)
Elenco dei
residenti del comune di Aci Castello con beni mobili. Le parole chirografiche
del testo si presentano in lingua italiana preunitaria comprensibile. Il libro
si conserva in buono stato.[82]
4. Numero corda
1969, Anno 1749
“Quintennio della Nova numerazione delle anime di
Acicastello”
con beni mobili. Le parole chirografiche del testo si presentano in lingua
italiana preunitaria comprensibile. Il libro si conserva in buono stato.[83]
5. Numero corda
1303, Anno 1811
Elenco degli
immobili e delle vicende di questi appartenenti ai residenti del Comune di Aci
Castello: registro vendite dei fondi
rivelati. E’ presenta anche il valore della rendita di ciascun fondo,
nonché la collocazione. Le parole chirografiche del testo si presentano in
lingua italiana preunitaria comprensibile. Il libro si conserva in buono stato.[84]
6. Numero corda
400, Anno 1811
Elenco di mobili
e delle vicende di questi appartenenti ai residenti del Comune di Aci Castello:
registro vendite dei beni rivelati.
Le parole chirografiche del testo si presentano in lingua italiana preunitaria
comprensibile. Il libro si conserva in buono stato.[85]
Dai documenti
analizzati emerge che l’area di Aci Castello nel periodo di compilazione dei
suddetti codici, ricade nella circoscrizione del Val Demone; le contrade ivi
ravvisabili sono le seguenti: Teriforti,
Misericordia, Gallinaro (anche Gallitaro
e Gallinajo), Nizeti, Monte Pidocchio, La Conca, Perzetto, Cammemonello, Cuzubbi,
Curtazo, Porta Messina.
E’ stato trovato
anche un timbro del Comune di Aci Castello rappresentante sulle onde del mare
il Castrum Acis ed i tre faraglioni
in modo speculare rispetto all’iconografia tradizionale con l’iscrizione
intorno di “IACI CASTELLO”, assieme
ad altri simboli illeggibili.
I nomi delle
contrade riscontrati nei Riveli della Deputazione del Regno, sono ancora in
parte ravvisabili nell’intitolazione delle vie o dei luoghi delle frazioni del
Comune di Aci Castello.
Tutti gli
altri documenti inerenti ad Aci Trezza sono collocati presso il fondo Trabia
della sede Gancia del medesimo ASPA: si tratta di materiale riguardante la
Torre della Trezza, attinente al luogo della Trezza (Palazzo, magazzini, case,
osterie, etc.), sulle pretensioni dei Padri Minoriti di Catania sullo scalo
della Trezza.[86]
[1]
La Strada ionica da Messina a Siracusa, presunta via Pompeia, prenderà poi la
denominazione di “dromos”, “strada principale”; congiungeva lo stretto di
Messina con Taormina, Aci, Catania, Lentini, e Siracusa, quest’ultima
importante scalo marittimo e nodo viario.
[2]
Gneo Pompeo Magno (in latino:
Gnaeus Pompeius Magnus; Picenum,
29
settembre 106
a.C. – Pelusium, 29
settembre 48
a.C.) è stato un militare
e politico
romano,
prima alleato e poi avversario di Gaio Giulio Cesare.
[3]
“...Quid enim attinuit, cum Mamertini more atque
instituto suo crucem fixissent post urbem in via Pompeia, te iubere in ea parte
figere quae ad fretum spectaret, et hoc addere, quod negare nullo modo potes,...”
(Cic.,
Verr., II, 5, 169). La citazione
rimane di dubbia interpretazione, non essendo chiaro dove si trovasse il luogo
della crocifissione.
[4]
Orsi 1907, p. 750
[5]
Gravagno 1992, pp. 41-43
[6]
La Rosa 1972; Bejor 1984a, p. 18
[7]
Spigo
1980-81, p. 787; Wilson 1990, p. 191 e 227; Bejor 1984a; Bejor 1986, p. 486, n.
109; Piano Paesistico, p. 242. Si veda anche Manni 1981, p. 133 (Akij, Acium).
[8]
Libertini 1952; Tomarchio 1980
[9]
Tortorici 2002, pp. 320-321
[10]
Lo
scavo in contrada Reitana, ha permesso l’identificazione di strutture di
abitazione e, forse, magazzini, riferibili ad età romana imperiale. Per le
notizie relative agli scavi ringrazio il sig. Giuseppe Barbagiovanni.
[14]
Bejor 1986, p. 486, n. 107; Tortorici 2002, p. 321, nota 203.
[15]
Tortorici 2002, p. 321, ripreso da Uggeri 2004, p. 203
[16]
La Sicilia romana tra Repubblica ed Alto Impero, Atti del Convegno di Studi a
cura di C. Micciché, Simona Modeo, Luigi Santagati, Caltanissetta, 2006
[17] Don Alfio Coco, Cinquant’anni ad
Acitrezza.
[18] ACQUE, RUOTE E MULINI NELLA
TERRA DI ACI, Saro Bella, Comune di Aci Catena – Aci Catena (CT), 1999
[19] Op. cit. Parte Prima, Il
controllo delle acque: la storia – Cap.1.13, Il declino: agrumi e nuove fonti
di energia, Pag. 153
[20] Op. cit. Parte Prima, Il
controllo delle acque: la storia – Cap.1.13, Il declino: agrumi e nuove fonti
di energia, Pag. 160
[21] Arciprete Parroco della
Parrocchia San Giovanni Battista di Acitrezza dal 1 Dicembre 1941 al 18 Luglio
1992.
[22] CINQUANT’ANNI AD ACITREZZA,
Alfio Coco, A&B Editrice – Acireale, 1998, pag.132 e ss.
[23] I MALAVOGLIA, Giovanni Verga,
Letteratura Italiana Einaudi – Milano, 1985, Pag. 125
[24] I MALAVOGLIA, Giovanni Verga,
Letteratura Italiana Einaudi – Milano, 1985, Pag. 33
[25] Arciprete Parroco della
Parrocchia San Giovanni Battista di Acitrezza dal 19 Luglio 1992 al 12 Ottobre
2001.
[26] Cappellano della Parrocchia San
Giovanni Battista di Acitrezza dal 15 Maggio 1884 al 19 Luglio 1903 e Arciprete
Parroco dal 19 Luglio 1903 al 15 Marzo 1928.
[27] ULTIMO BANCHETTO A TREZZA,
Salvatore Coco, A&B Editrice – Acireale, 2009, Pag. 94 e ss.
[28] Uluç Alì (Le Castella, 1519 – Istanbul, 21 giugno 1587) è stato un corsaro e ammiraglio ottomano. Il suo primo nome
fu probabilmente Giovan Dionigi Galeni.
Il suo nome turco ottomano si trova traslitterato in diversi modi: Uluç Alì,
ʿUluj Alì, Uluch Alì, Ulug Alì, Ulugh Alì; ovvero "Alì il Rinnegato".
Fu soprannominato anche Kılıç Alì
o Kiligi ("Alì la Spada"). Il suo nome fu poi storpiato nell'italiano
Occhialì, o Luccialì, Uluccialì o Uccialì.
Partecipò alla battaglia di Lepanto, come comandante dell'ala sinistra
dello schieramento ottomano. Fu l'unico tra i capitani, assieme a Murad Dragut, a sopravvivere allo
scontro.
[29] ASCA, registro 1625/26, f. 108.
Gli “stazoni” cui si fa riferimento dovrebbero essere a Capo Mulini.
[30] Tiburzio Spannocchi, noto in Spagna
come Tiburcio Spanoqui, Tiburcio Espanoqui o Tiburcio Espanochi (Siena,
1543
– Madrid,
1606),
è stato un architetto e ingegnere
italiano,
dedito soprattutto all'ingegneria militare. Svolse la sua attività in Italia ed
in Spagna. Fu, con Filippo Terzi,
il più celebre architetto e ingegnere militare attivo nella penisola
iberica nella seconda metà del XVI
secolo.
[31] Camillo Camilliani
(Firenze, XVI secolo – Palermo, 1603) è stato uno scultore, architetto e ingegnere italiano. Di lui si hanno
notizie storiche certe dal 1574 al 1603. Lavorò alla Fontana Pretoria di Palermo, prima di
specializzarsi in ingegneria militare, progettare ed eseguire fortificazioni
lungo le coste siciliane, allora tormentate
dai corsari ottomani e dai corsari barbareschi. Il progetto fu talmente organico e
di alta qualità da costituire la base di un vero e proprio sistema di torri costiere della Sicilia, analogo per certi
versi a quelli che nello stesso periodo si andavano costruendo in Italia ed in
tutti i domini dell'impero spagnolo.
[32] Il riferimento coincide con
Tommaso Fazzello “Le due deche dell’Historia di Sicilia” ove Plinio chiama gli
scogli dei Ciclopi “Scopuli Cyclopum Tres”
[34] Il Libro delle Torri, Palermo,
1985 – pag. 203
[35] Non resta alcun dubbio che la
Torre di Sant’Anna sia opera del Camilliani e non, come sosteneva il Raciti
Romeo, di Vincenzo Geremia. Basandosi sulle caratteristiche architettoniche,
alcuni autori avevano già da tempo avanzato l’ipotesi che fosse opera del
Camilliani.
[36] Acque, Ruote e Mulini nella
Terra di Aci, Saro Bella, Aci Catena, 1999 – Pag. 70
[37] Questa data è citata solo da
Saro Bella: non si evidenziano documenti ufficiali che attestino che in
quell’anno sono effettivamente iniziati i lavori ad Acitrezza per una garitta,
che ad ogni modo avrebbe dovuto essere comunque di un solo piano, stando che il
secondo è stato aggiunto sotto i Riggio.
[38] ASCA, Corrispondenze, consigli,
etc. vol. 19°, registro XXI, raccolta 1655/56, f. 39 e ss.)
[39] In particolare, visto
l’armamento e la posizione, era il bastione grande a far sentire la sua voce,
così come avviene in maniera festosa l’8 Giugno 1728. ASCVA, visita pastorale
del 1728.
[40] Arciprete Parroco della
Parrocchia San Giovanni Battista di Acitrezza dal 15 Maggio 1884 al 15 Marzo
1928.
[41] G.C. Cacciola, S. Coco –
Acitrezza e il suo Parroco tra ottocento e novecento, A&B Editrice –
Catania, 1996 – Pag. 126
[42] G.C. Cacciola, S. Coco –
Acitrezza e il suo Parroco tra ottocento e novecento, A&B Editrice –
Catania, 1996 – Pag. 103
[47] Atto del 3 Aprile 1673 in ASCT,
not. F. Ingarsia, II, 187, 602 e ss.
[48] Enrico Blanco, Trezza Le
Origini, La Sicilgrafica, Acireale, 1993 – Pag. 24. L’Autore afferma che la
Torre dei Faraglioni fu sottoposta a lavori di innalzamento nel 1673,
formandola nel suo aspetto attuale. Inoltre i documenti trovati dal Blanco
indica come la “garita delli stazoni”
era “costructa (e l’abbiamo
riscontrato nel 1677 ma non nel 1673) et
costruenda”.
[49] ASC, not. D. Ingarsia, II 281,
f. 325 e ss. Ecco l’elenco: «da don Francesco Greco, calcina, salmi 231 e cofina
2, per onze 48, tarì 1 grana 14, a ragione di tarì 6, grana 4 e picciuli 4 per
salma; da m° Paolo Savasta, calcina, salmi 447.7, per onze 65, tarì 20 e grana
13, a tarì 4 e grana 8 a salma; da Paulo Scandurra e compagni, rina di S.
Tecla, salmi 172.9, per onze 8, tarì 2 e grana 2, a tarì 1 grana 5 a salma; e
ina di la fossa di Monpilieri, salmi 824.10, per onze 24, tarì 22 e grana 3, a
grana 18 a salma; da Salvatore Di Bella tutta la petra utilizzata per fabrica e
mura. La fabrica murata e di canni 420 e, a ragione di tarì 4 la canna, ascende
alla somma di onze 56.»
[50] Acitrezza nella Storia, Santo
Pellegrino – Edizioni Ferdinandea, Catania - 1996
[53] ASCT, not. F. Ingrasia, II, 225
bastardello, f. 169 v
[59] Archivio Storico del Comune di Acireale, Verbale di consegna al Ten.
Cervella del 7 ottobre 1839, Registro torri e fanti 1839
[60] C. Camilliani (1877), Descrizione dell’Isola di Sicilia, Biblioteca
Storica e Letteraria di Sicilia, vol. XXV, serie II, 1877. S. Mazzarella,
R. Zanca(1984), Il libro delle torri. Le torri costiere di Sicilia nei
secoli XVI-XX, Sellerio, Palermo 1984. T. Spannocchi (1558), Descripciòn
de las marinas de todo el Rejno de Sicilia, ms. BNM n. 788, 1578. T.
Spannocchi (1993), Marine del Regno di Sicilia, a cura di Rosario
Trovato, Ordine degli architetti della provincia di Catania, Catania 1993.
[61] Arciprete Parroco della
Parrocchia San Giovanni Battista di Acitrezza dal 19 Luglio 1992 al 12 Ottobre
2001
[62] Cappellano-Curato di breve
durata in seguito all’estinzione del beneficio dell’Arcipretura Parrocchiale di
Acitrezza, originario di Aci Sant’Antonio, dal 4 Maggio 1874 al 19 Aprile 1879.
[63] Salvatore Coco, Ultimo Banchetto
a Trezza, A&B Editore, Acireale 2009, Pag.95 – 97.
[64] Luigi Riggio (o Reggio) e
Giuffré, Principe di Campofranco, di Campofiorito, di Aci Sant’Antonio e San
Filippo, marchese della Ginestra, duca di Valverde, Barone di Valguarnera
Regali, figlio del fondatore di Acitrezza don Stefano Riggio e Santostefano,
discendente di antica e nobile famiglia siciliana, pari del Regno di Napoli,
discendenza in linea maschile. Arma: di azzurro alla fascia di oro,
accompagnata da quattro stelle dello stesso, tre in capo ordinate in fascia, ed
una in punta. La cronistoria del governo dei Riggio sul territorio di racconta
che già nel 1680 (dieci anni prima dell’edificazione della Torre)
l’amministrazione fosse passata nelle mani del figlio di lui, don Stefano
Riggio Saladino.
[65] Arciprete Parroco della Parrocchia
San Giovanni Battista di Acitrezza dal 1 Dicembre 1941 al 18 Luglio 1992.
[66] Alfio Coco, Cinquant’anni ad Aci
trezza, A&B Editore, Acireale 1998 – Pag. 48
[67] Comunicazioni e
trasmissioni. La lunga storia della comunicazione umana dai fani al telegrafo –
Pippo Lo Cascio – 2001 Rubbettino Editore.
[69] Le universitates
(dal latino universitas, -tis), definite anche università del Regno
(o semplicemente "università"), erano i comuni dell'Italia meridionale, sorti già sotto la dominazione
longobarda e successivamente infeudati con le conquiste dei
Normanni. La loro evoluzione
storica è differente rispetto ai liberi comuni sorti nell'Italia centro-settentrionale nel Medioevo. Secondo lo storico Tommaso Cappuccino, durante il dominio
di Federico II si usava il termine "comune", mentre Carlo I d'Angiò lo mutò in universitas (da universi cives,
"unione di tutti i cittadini"), ordinando la distruzione dei sigilli
comunali. Esse sopravvissero sino all'abolizione del feudalesimo avvenuta con decreto del 2 agosto 1806, ad opera di Giuseppe Bonaparte.
[70] ASPA, Fondo Trabia, n. di corda
761, vol. I – Torre della Trezza (1690 – 1706), ricerca del 16 Aprile 2015 a
cura di dott.ssa Motta Emanuela e D’Urso Graziano.
[71] ASCT not. M. Maugeri S., II,
613, f. 345 e ss.
[72] G. Gravagno, Storia di Aci.
[73] Si era in regime di decreto
prodittatoriale emanato il 23/08/1860.
[74] ASCT, Fondo Prefettura,
Sottoprefettura Acireale, inv.1, busta 1.
[75] ASCT, Fondo Prefettura,
Sottoprefettura Acireale, inv.1, busta 193
[76] ASCT, Fondo Prefettura, serie
II, elenco e, busta 2
[77] ASCT, Fondo prefettura,
sottoprefettura Acireale, Inv. 6, busta 4
[78] Enrico Blanco, op. citata – Pag.
28
[79] Ricerca condotta da Antonio
Castorina e Graziano D’Urso, in data Lunedì 30 Settembre 2013.
[80] Fondo Real Patrimonio – Reveli.
[81] Fondo Real Patrimonio – Reveli.
[82] Fondo Deputazione del Regno –
Reveli.
[83] Fondo Deputazione del Regno –
Reveli.
[84] Fondo Deputazione del Regno –
Reveli.
[85] Fondo Deputazione del Regno –
Reveli dei possessori di terre.
[86]
http://provincia.ct-egov.it/servizi/sportelli_informativi/comuni/area_metropolitana/acicastello/Fonti_archivistiche_per_la_storia_di_Acicastello.aspx
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